LISTEN / BUY : https://thedustrealm.com/under-this-kind-of-light
[ITA]
Sapete quante sono le specie viventi al mondo?
Nessuno lo sa con precisione: potrebbero variare da 3 a più di 100 milioni...
"Under This Kind of Light" è una celebrazione alla casualità delle condizioni che hanno permesso la vita; una su tutte la presenza di una stella: grazie al gratuito e infaticabile lavoro del Sole, le forme di vita in miliardi di anni si sono potute moltiplicare e differenziare fino a farne perdere letteralmente il conto.
“Under This Kind of Light” è un’ode alla vita in tutte le sue possibilità, compresi i primordi di quella che si appresta ad essere una nuova entità vivente sviluppata intenzionalmente da una forma di vita stessa: il video è infat ti interamente realizzato con algoritmi di intelligenza artificiale saggiamente diretti da Giovanni Tutti, un umano che, come noi, discende dai batteri.
In questo video Giovanni Tutti riduce l’AI all’essenziale: come fosse un videomaker umano, la istruisce sul contenuto del brano e la lascia lavorare. Il prodotto che ne esce è onirico, primordiale e aleatorio, proprio come ogni forma di vita ai primi passi.
Il 1° settembre 2024 esce per theDustRealm Music “Under This Kind of Light”, nuovo singolo dei Frank Sinutre che preannuncia l'uscita del loro quinto album.
[ENG]
Do you know how many living species exist in the world?
No one knows for sure: it could range from 3 to 100 million...
"Under This Kind of Light" is a celebration of the randomness of the conditions that allowed life; one of the most crucial being the presence of a star: thanks to the free and tireless work of the Sun, life forms have been able to multiply and diversify over billions of years, to the point where it's impossible to count them all.
“Under This Kind of Light” is an ode to life in all its possibilities, including the beginnings of what is set to be a new living entity developed intentionally by a form of life itself: the video is indeed entirely created with artificial intelligence algorithms wisely directed by Giovanni Tutti, a human who, like us, descends from bacteria.
In this video, Giovanni Tutti strips AI down to its essentials: like a human videomaker, he instructs it on the content of the song and lets it work. The resulting product is dreamlike, primordial, and random, just like every form of life in its early stages.
On September 1, 2024, "Under This Kind of Light", the new single by Frank Sinutre, will be released by the Italian label theDustRealm Music, heralding the arrival of the duo’s fifth album.
Isi Pavanelli (Reactabox, synth, beat maker, vocoder) e Michele K. Menghinez (chitarra, basso, vocoder, lap steel, batteria) costituiscono i Frank Sinutre nel 2011 e fin dai primi live decidono di utilizzare alcuni strumenti elettronici home-made realizzati da loro. Inizialmente il rectaBOX (ispirato al celebre Reactable consiste in un controller midi a forma di cubo luminoso, con all’interno una webcam ad infrarossi, che funziona leggendo immagini su cubetti e dischi che vengono appoggiati e mossi sullo schermo del cubo). Su questo strumento basarono il cuore del loro live: l'idea di fondo era quella di fare elettronica ma in una modalità che permettesse di jammare e improvvisare in modo libero, compiendo ovviamente anche errori ma cercando così un approccio più fisico al genere.
La prima versione di Reactabox era in legno e fu utilizzata per i live de "La Colpa della Leonessa" fra il 2012 e il 2013:
Successivamente, in seguito ad una serie di concerti perduti perché sarebbero dovuti essere in unplugged, Isacco decise di costruire una drum machine acustica. Basata su Arduino e interamente governata da sequencer su pc era provvista di 4 martelletti che a seconda del pattern ritmico programmato andavano a percuotere 4 diversi contenitori su cui erano stati collocati all'interno diversi materiali: conchiglie, biglie, palline da ping pong, tasselli, rondelle, monete, nacchere etc.
La Drummabox fu utilizzata nel 2013 e 2014 in alcuni concerti di "Musique pour les Poissons", ma a causa della sua scarsa affidabilità e di un'importante latenza nel segnale fu abbandonata nei live.
Negli anni a seguire fu realizzato un secondo Reactable, sempre partendo dall'idea del primo ma con schermo illuminato e case in plastica. Questo strumento ha accompagnato la band per circa 6 anni sia per i concerti di "Musique pour les Poissons" che per buona parte del terzo album "The Boy who Believed he could Fly" in più di 200 date sparse un po' ovunque fra Italia, Svizzera, Slovenia, Croazia e Austria. In circa 200 live è caduto solo una volta al Papaglia in provincia di Vicenza.
Come il primo era provvisto di 5 cubi (ogni cubo dotato di 4 strumenti su 4 delle 6 facce) e 4 dischi che spostati lungo gli assi x,y e sulla rotazione potevano andare a variare altri 3 parametri che erano stati assegnati.
Nel 2017 raggiungono l'obiettivo nel crowd funding per la realizzazione del terzo reactaBOX (nella campagna Reactabox-3 a new midi experience). Inizialmente pensavano di poter aspirare massimo ad un 20%, ma grazie ad amici, sostenitori, cugini arrivarono addirittura ad un 108 %. Una volta arrivati lì non ci si poteva più tirare indietro: il Reactabox-3 andava costruito.
Dopo una serie di acquisti errati come la camera che doveva essere ad infrarossi ma purtroppo non lo era e diversi mesi spesi nella progettazione e nei test il ReactaBox-3 ha fatto il suo debutto nel 2018 durante i concerti di "Sunset with Sunrise Remixes" e ci accompagna ancora oggi per i concerti di "200.000.000 Steps" il nostro quarto album.
Al suo interno, a differenza dei primi due è stato alloggiato anche un proiettore che permette di poter leggere sullo schermo i valori dei singoli parametri che si stanno suonando e le loro variazioni. Questo aspetto ha migliorato l'esecuzione, ha permesso di orientarsi con meno difficoltà sullo schermo gestendo le variazioni degli effetti in modo più preciso.
"Con questo nuovo strumento è stato risolto anche un altro piccolo inconveniente che avevano i primi due Reactabox legato alla luminosità dell'ambiente: lavorando con camera ad infrarossi era sempre necessario mantenere una luce soffusa sul palco, evitare assolutamente la luce solare e fasci di luci direzionate direttamente sullo schermo altrimenti i controller non venivano letti e di fatto il Reactabox suonava un po' lui quello che gli pareva. Per questo abbiamo dovuto quasi sempre suonare di sera e con luci tenui. E sempre per questo motivo abbiamo deciso a partire dal 2015 di utilizzare anche lampade di wood attaccate a strumenti e back-line che proiettassero luce dal basso che non interferisse con la camera del Reactabox. Dal momento poi che il wood va a braccetto col fluo abbiamo deciso anche di dotarci di outfit e strumenti fluo e prendere la residenza a Rovigo".
Creato nel 2020 ma mai utilizzato dal vivo, il Rototune è un dispositivo che interagisce con i pick-up della chitarra elettrica attraverso la rotazione di un motore: suonando una tastiera, un motore viene fatto girare ad una velocità tale da interagire coi pick-up della chitarra e intonare la giusta nota.
L'idea è nata dopo diversi anni di utilizzo di uno spazzolino da denti elettrico. La rotazione del motorino elettrico produce un certo suono che varia in funzione della velocità di rotazione. Quindi lo spazzolino poteva produrre una nota sola e l'unico modo per intonarlo era o rallentare manualmente lo spazzolino oppure agire tramite un pitch shifter tipo Whammy.
Il quarto album in studio del progetto elettronico Frank Sinutre "200.000.000 Steps" esce il 25 settembre 2020 per l'etichetta New Model Label.
200 milioni di passi sono una stima del numero medio di passi che compie un homo sapiens sapiens nel corso della sua vita; circa 5 volte attorno al mondo... Praticamente una passeggiata molto lunga.
200 milioni è senza dubbio un numero incredibile, si fatica a pronunciarlo e ancora di più ad immaginarlo. Ma rappresenta la lunghezza della vita espressa con un'unità di misura alternativa al tempo. Quanti passi hai?
Le canzoni che lo compongono sono più o meno verosimilmente collegate fra loro da un denominatore comune: la Terra come luogo in cui costruire la propria storia, la terra su cui camminiamo, viviamo, e dentro cui, alla fine della nostra passeggiata, andiamo a riposarci definitivamente.
Frank Sinutre "200.000.000 Steps" sulla Next Parade di PoliTo - Onde Quadre la Student Radio & Video powered by Ufficio Multimedia del Politecnico di Torino.
Frank Sinutre intervista e videoclip su Televomero, la televisione sul digitale terrestre della Campania. In collaborazione con myBAND.it Podcast, Tv e Network per la promozione della musica.
In un’era in cui con Amazon è possibile ricevere a casa cuffiette in silicone dalla Corea del Sud con la stessa rapidità con cui si finisce un aperitivo, loro scelgono la strada lenta della ricerca e dall’auto-produzione artigianale. In un mondo gonfio di parole e comunicazioni istantanee, loro si fanno promotori di un suono “senza messaggio”, fatto per sfibrare le cinghie rigide della razionalità e aprire le porte ad un flusso emotivo privo di sillabe. Di fronte ad uno show-biz sempre più scintillante e patinato, loro seguono la vecchia scuola rock’n’roll dei palchi pieni di pubblico (quarantene permettendo) e delle casse-spia prese a calci (vedere le ammaccature per credere). Michele e Isacco dei Frank Sinutre, con i controller assemblati nella loro sala prove di Sermide, in provincia di Mantova, e le sonorità a metà tra la new-wave anni ’80 e l’ultima ondata elettronica del secondo millennio, rappresentano un duo fuori dal tempo capace di andare controcorrente con la spensieratezza infantile di chi non se ne rende conto. Li abbiamo incontrati in occasione della nostra ultima Diretta Resistente della stagione, in cui hanno condiviso il palco virtuale insieme a cantautori, producer e improvvisatori da strada. Tra un live in esclusiva dal loro “covo” e un ricordo delle estati spagnole passate a dormire nei parchi pubblici, ci hanno raccontato cosa si nasconde dietro alle sonorità magnetiche che hanno portato in giro per mezza Europa e perché è importante continuare a intendere la musica come un gioco.
“Una cosa che ci ha sempre colpiti è il fatto che il verbo suonare in inglese si dica to play, che significa anche giocare“. Ascoltarli per credere.
Ciao ragazzi, prima di tutto: come state e come siete sopravvissuti a questi mesi di anormalità collettiva?
Vi premettiamo che queste potrebbero essere risposte alla Abraham Simpson:
Abbiamo fatto l’ultimo live a Verbania il 22 febbraio, era un sabato e già le notizie di una imminente chiusura trapelavano fra i ragazzi presenti a quella festa. Era una festa in maschera per altro e qualcuno con ironia già aveva addosso la mascherina. Il giorno seguente a entrambi ci hanno comunicato che avremmo lavorato da casa con il famoso smar uorchi. Inizialmente, per le prime due settimane è stato un momento in cui si è potuto recuperare cose rinviate per anni. Ad esempio ho lavato le tende della sala prove. Erano forse 6 anni che non le si lavava. Nelle settimane successive quando ormai avevamo capito che sarebbe stata una guerra lampo come la prima guerra mondiale (cioè per nulla lampo) abbiamo iniziato ad organizzarci il lavoro. Fortunatamente avevamo anche pochi live programmati perchè stavamo già dando la priorità alla registrazione del nuovo disco, il nostro quinto, e quindi abbiamo dovuto rinunciare a pochi concerti. La fortuna ha voluto anche che circa a metà febbraio avevamo finito tutte le parti da registrare quindi ci sarebbe rimasto solo il mixaggio. Quindi per quei 3 mesi uno mixava i pezzi del disco da casa e l’altro raccoglieva i soliti contatti di radio etc a cui mandare il materiale una volta finito. Per il resto un po’ tutto come sempre se non che solitamente questi mestieri li facciamo quasi sempre insieme, ma a causa del lock down abbiamo dovuto farli separatamente. Questo è un po’ un peccato perché insieme lavoriamo sempre volentieri, forse con un po’ meno resa, ma comunque con delle grasse grosse risate da anziani che per noi costituiscono il sale della vita.
Parliamo di musica: come band avete iniziato a farla poco meno di 10 anni fa con l’idea di utilizzare (anche) strumenti elettronici tutti vostri, letteralmente assemblati a mano. In un’era in cui basta un click per ricevere a casa un controller statunitense in meno di due giorni, sembra una scelta quantomeno bizzarra. Da dove è venuta questa esigenza di “auto-produzione”?
Beh, i controller che compri su Thomann hanno pulsanti, knob e fader che rendono tutto un po’ più freddo. Non che li disdegniamo eh… li utilizziamo pure. Ma per il nostro set volevamo qualcosa di più “fisico”, che si prestasse di più al live e all’improvvisazione. La genuinità del reactaBOX consiste in due particolari: primo, permette di fare molte cose contemporaneamente (ad esempio, modulare 6 parametri nello stesso istante); secondo, permette di farle con molta meno precisione rispetto ad un controller convenzionale. Quest’ultimo può sembrare uno svantaggio, ma rende ogni esecuzione unica e originale.
Come detto, sono circa dieci anni che solcate palchi e festival in giro per mezza Europa. Cosa è cambiato nel vostro modo di fare musica e che cambiamento avete visto nel vostro pubblico?
Una cosa che ci ha sempre colpiti è il fatto che il verbo suonare in inglese si dica to play, che significa anche giocare. Ecco la musica è un gioco, scrivi un pezzo, lo cambi, lo arrangi, lo registri, ne fai un clip, e mille altre cose a seconda di come vuoi condurre il tuo gioco. E’ un gioco più o meno serio come più o meno seriamente si può prendere una partita a Risiko! o una partita a calcetto saponato o la finale di Champions; resta il fatto che la sua bellezza sta proprio nella magia che ha il gioco. Quando avevo 10 anni il mio gioco era essere il batterista degli Iron Maiden, Nicko Mcbrain (e il suo naso da Mike Tyson) e la mia batteria era fatta di fustini del Dixan (che erano rotondi all’epoca) e che sembravano dei timpani perfetti. Il gioco, più giochi poi, si fa sempre più serio. Negli ultimi 10 anni di Frank Sinutre il gioco si è fatto via via più serio, anche se in realtà ridiamo sempre allo stesso modo delle nostre dis(avventure); serio nel senso di attento, al passo coi tempi, senza imprevisti. Quando abbiamo iniziato, il nostro primo reactabox aveva il case in legno, dopo circa 50 date con quello ne abbiamo prodotto un altro e dopo il crowdfunding del 2017 il terzo, molto più affidabile del primo e del secondo, molto più completo. Allo stesso modo abbiamo sempre rinnovato e ampliato la nostra strumentazione, vocoder, live equipment, nuovi strumenti autocostruiti (in questo momento parallelamente al disco infatti stavamo lavorando ad un synth con motori elettrici), un visual show quando necessario, diverse tipologie di strumenti elettrici in funzione del pezzo che devi andare ad eseguire. Quindi i live negli anni si sono fatti via via sempre più ricchi di strumenti; all’inizio avevamo una chitarra, 5 pedalini, un synth e un rectabox in legno fatto in casa. Potevamo persino andare a suonare con la Yaris a 3 porte. Ora fortunatamente abbiamo uno di quei van porta tutto. Chitarre, basso, slide guitar, le nostre solite luci di wood (perché le luci dall’alto interferiscono con le luci dei reactable), ampli, effetti un po’ ovunque, synth e così via… Quindi se ci chiedi qual è stato il cambiamento avvenuto in questi 10 anni per noi, ti rispondiamo senz’altro l’ingombro e che a causa di ciò abbiamo dovuto comprare una macchina più spaziosa per infilarci dentro tutta la strumentazione.
Ma non solo, se parliamo di cambiamenti, in 10 anni è un po’ cambiato anche il nostro modo di fare musica. Anzi ogni 2 anni lo cambiamo!! Il primo disco era una colonna sonora quindi doveva aderire perfettamente al copione, il secondo disco è fatto di jam che suonavamo nei primi 30-40 live e che pian piano sono diventate canzoni che poi abbiamo registrato, il terzo album è un disco che abbiamo scritto direttamente mentre lo registravamo (e infatti a differenza del secondo era molto più faticoso da suonare live), il quarto è una compilation di remix che diversi dj e producer sparsi per il mondo han fatto del nostro pezzo “Sunset with Sunrise”. Questo disco, che sarà il quinto, l’abbiamo prima suonato tutto e poi una volta imparato abbiamo iniziato a registrarlo.
Se invece parliamo del cambiamento fra pubblico e concerti, il problema non è tanto nel pubblico quanto nel non-pubblico, nel senso che andando in giro un po’ ci si sente raccontare di tutto; dal vicino che un giorno sì e un giorno sì manda il vigile a misurare l’intensità sonora col fonometro, a quello che chiama l’asl per il controllo e via dicendo ma non addentriamoci oltre. Vogliamo solo riassumere tutta la situazione con una breve triste storia: un caffè in una città della Toscana, un live in strada, una vicina che dal balcone rovescia un secchio d’acqua, sotto il secchio d’acqua c’è un mac (probabilmente di qualche migliaia di euro) del suonatore. Per fortuna il suonatore in questione non eravamo noi. Triste e grottesca vicenda relativa ai concerti e al non-pubblico che vuole riassumere lo stato semi-attuale delle cose.
Poi se parliamo di cambiamento nel futuro, non lo sappiamo davvero. Il nuovo evento del virus ha scombinato un po’ tutti i piani e potrebbe non essere più così facile come prima. L’altra mattina mi sono svegliato con una frase in testa: oggi 22 febbraio 2020 è finito Woodstock.
Influenze: mescolate generi lontani e diversi, come l’elettronica e la dub, la psichedelia e la reggae, formando una sonorità totalmente nuova. Da dove viene la vostra ispirazione?
Esattamente, ci piacciono molti generi e ci piace mescolarli per quanto possibile; dipende molto dai periodi, anno dopo anno ci si affeziona a ciò che si ascolta e una certa canzone o un album diventano la colonna sonora di quel particolare momento della propria vita. Se qualcuno ascolta Neil Young nel periodo in cui scrive la tesi, state pur certi che ogni volta che ascolterà qualche canzone di Neil Young gli torneranno in mente, per tutta la vita, le notti insonni passate a scrivere la tesi. Nel momento in cui poi ti trovi in prima persona a scrivere qualcosa inevitabilmente emerge tutto l’ascoltato, da Debussy ascoltato a casa dei nonni agli Slayer ascoltati per caso a 12 anni e così via. Quando le canzoni sono cantate poi, spesso partiamo da un nucleo e successivamente lo sviluppiamo tutto attorno, a volte basta anche solo una frase che funga da catalizzatore della reazione. In questo caso quando scriviamo i testi sono quasi sempre piccoli eventi che hanno catturato la nostra attenzione e che abbiamo voluto fotografare in una canzone. Un giorno mio padre tornando a casa mi raccontò che sul ponte del Po aveva visto dallo specchietto retrovisore un signore che si stava buttando nel fiume, mi raccontò questo evento perché anche mia madre aveva assistito allo stesso evento ma dall’argine; quindi uno in auto sul ponte e una dall’argine hanno assistito a questo “tuffo” di questo disperato. Nel tornare a casa quando si sono incontrati si sono detti “ti devo raccontare una cosa che mi è successa oggi” e così han scoperto di aver assistito allo stesso evento. Ecco storie come queste sono diventate canzoni.
Quando componete vi si immagina nel salotto della vostra casa di campagna con le finestre aperte sui campi e le casse a tutto volume, mentre con le sonorità seguite quello che vedete scorrere in lontananza. È così che siete arrivati ad un lavoro complesso e ricercato come “The Boy Who Believed He Could Fly”? O lavorate più individualmente ragionando in maniera “analitica” alle sonorità?
In realtà entrambe le cose. Quando abbiamo registrato “The Boy” abbiamo affrontato la cosa nel modo che credevamo più “professionale”: ci siamo seduti davanti al PC e abbiamo costruito i pezzi con un approccio analitico. Alla fine eravamo contenti ma quando abbiamo iniziato a preparare il live ci siamo accorti di un errore: non sapevamo suonare le canzoni. Abbiamo faticato un bel po’ per assimilare la scaletta. Lezione imparata: quando abbiamo iniziato a registrare l’album che stiamo completando in questi giorni, ci siamo imposti la condizione di costruire ogni pezzo nel modo più banale (ma non poi così scontato): suonandolo. Con le finestre aperte sui campi, come dici tu, oppure rinchiusi, con la stufa accesa al riparo dal freddo e dalla nebbia. Volevamo un disco che ci facesse divertire già in partenza. Solo dopo aver raggiunto quell’obiettivo sono partite le registrazioni.
Sermide, nella provincia di Mantova, è il vostro centro di gravità. Qui avete composto i quattro album e qui tornate alla fine di ogni tour, nonostante le città “must” per chi fa musica (soprattutto elettronica) siano ben altre. Cos’ha questo piccolo paese che non trovate nelle grandi città? Quanto di questo posto c’è nella vostra musica?
Sermide è il piccolo buco di un lavandino, di un grosso lavandino pieno di nebbia chiamato Pianura Padana. Sermide è il piccolo paese dove abbiamo fatto tutto. Una casa di campagna, dei vicini lontanissimi, così lontani che puoi fare l’intro di Iron Man dei Black Sabbath con la batteria alle 4 del mattino. Ecco uno dei piccoli vantaggi. In città le sale prove costano, si hanno limiti di tempo, orari da rispettare; in città ci sono veramente dei limiti imbarazzanti. Forse da qui in paese hai molta meno esposizione ma una grande libertà. Voglio dire, è impareggiabile come senso di libertà poter registrare il proprio album quando è estate in mutande con il gatto della sala prove coricato sulla tua pedaliera. Ed è impareggiabile prodursi i dischi direttamente in sala prove: puoi cambiare idea ogni 5 minuti, provare fino a quando sei soddisfatto del risultato, e soprattutto avere molto molto tempo per poterti permettere tutti gli esperimenti che vuoi: una volta per esempio ho beccato Isacco che campionava un trattore alla finestra. Giuro.
Che poi in realtà facendo un piccolo zoom all’indietro la nostra è una piccola realtà corale, siamo parte di una piccola associazione, che c’è da circa 13 anni, “La Saletta” in cui ritrovi sempre i vecchi amici e molti dei personaggi che ispirano le nostre giornate oltre che le nostre tracce. Più o meno la nostra storia ha ruotato tutto intorno a questa casa da sempre. Pure noi 2 suonavamo in band diverse e a forza di incontrarci sul pianerottolo che divideva le due sale prove abbiamo iniziato a frequentare la sala prove uno dell’altro. A volte penso ai 5 gatti che abitano qui, 2 dei quali sono qui dal 2008, loro hanno visto e sanno tutto: ci hanno visto studiare per gli esami dell’università, laurearci, fare figli, andare a Berlino per poi ritornare, feste, cene, e tutti i dischi a cui abbiamo lavorato al primo piano, loro c’erano sempre, in una traccia di un disco di dieci anni fa ha pure cantato uno di loro. Ecco, loro anche se sono gatti di campagna hanno incontrato almeno 2000 persone nella loro vita qui. Forse esagero, facciamo 1990. Comunque sicuramente pur essendo gatti di campagna hanno conosciuto più umani di un gatto di città in appartamento. Ecco perchè Sermide, come mille mila altri paesi va bene a dispetto di altre mille mila città. In città ci si va a suonare, poi per fortuna si torna a casa. In sintesi.
Tendenzialmente i vostri pezzi non hanno testi o almeno non sono al centro dei vostri lavori. Perché? Non sentite che così il vostro lavoro perda qualcosa in termini di messaggio/comunicazione?
In realtà non ci sentiamo portavoce di messaggi di qualsivoglia valore umano. Ci piace l’idea che, nella musica, sia soprattutto la musica a parlare; ci piace sfruttare soprattutto la potenza comunicativa non-verbale della musica. I testi che inseriamo (soprattutto in “The Boy” e nel prossimo album) sono frammenti di pensieri, frasi semplici o, talvolta, vicende personali che hanno spesso la funzione di guidare ed indirizzare il messaggio non-verbale della musica.
Nel nostro giornale online, la sezione dedicata all’arte di chiama “Arte resistente”. Credete che ci sia un carattere “resistente” nel creare strumenti ex-novo e elaborare sound mescolando generi apparentemente lontani come fate voi?
A giudicare dal numero di botte che prendono i nostri strumenti prima, durante e dopo i live direi che sì, hanno un carattere resistente. A parte questo, direi di no. Facciamo musica per piacere, perché ci fa sentire bene. Comunque sì, è un po’ una forma di resistenza.
Torniamo alla quarantena: che periodo avete vissuto? Cosa portate con voi a livello artistico?
Non credo si possa chiamare una “fortunata coincidenza” ma il periodo del lockdown per noi ha coinciso con il lavoro più sedentario che ci potesse capitare: mixare i 10 brani del nostro nuovo album che avevamo appena finito di registrare. Abbiamo così avuto l’opportunità di applicare lo smart-working alla nostra routine artistica. Una modalità inedita per noi che siamo abituati a vivere la sala prove.
A livello più ampio, cosa a vostro avviso dovremmo custodire e cosa dimenticare di questi mesi di clausura?
Custodire: la consapevolezza della subordinazione umana ad un ecosistema più grande, la capacità di reazione abbastanza lucida ad un problema critico, il lavoro da casa e soprattutto le nuove casse da studio che ci siamo comprati per mixare il nuovo disco (ma forse anche solo per il gusto di comprare un nuovo giocattolo).
Dimenticare: niente. Abbiamo vissuto un momento storico, nel bene e nel male. Un periodo che, nel suo svolgersi, ha racchiuso tanti aspetti della società in cui viviamo. Perché dovremmo tentare di dimenticarlo?
Che progetti avete per l’estate e il prossimo autunno? Si torna sul palco?
Per tutti quelli che fanno musica, a qualunque livello, l’estate sembra abbastanza incerta e ci fa un po’ dispiacere. Puoi raccontarti finché vuoi che “suoni per te stesso” ma la verità è che senza un palco e un pubblico tutto perde un po’ di senso. Il viaggio, il check, le nuove amicizie, la cena in compagnia, i ragazzi e le ragazze che ti chiedono un disco… sono tutte cose senza le quali puoi stare solo per un periodo limitato di tempo. Ma poi, ne hai bisogno come del metano che non si trova in autostrada (a proposito di cose che fanno parte dell’atmosfera del live).
Approfitteremo di questo periodo per far conoscere il nostro nuovo disco che uscirà durante l’estate. Si chiamerà “200.000.000 steps” (pare che sia la distanza percorsa, in media, da una persona, nel corso della propria vita) e sarà preceduto dal video del brano omonimo che vedrete presto.
La cosa bella di questo blog è che va ad esplorare qualsiasi sotto genere della musica; oggi per esempio sono a scoprire, come un’Indiana Jones di Spotify, la musica elettronica e ho voluto conoscere meglio il gruppo Frank Sinutre. Il loro ultimo album è 200.000.00 Steps, il quarto lavoro discografico della band.
La nostra chiacchierata si è concentrata sulla loro carriera live, sull’idea di creare strumenti homemade e di molto altro. Buona lettura!
Ciao benvenuti! Iniziamo questa chiacchierata parlando del vostro nome Frank Sinutre, come lo avete scelto?
(Michele) Bisogna sapere che abbiamo data base di ogni sorta, una di mail a cui scrivere, una di canzoni abortite, uno di appunti di sciocchezze più o meno realizzabili e via così; anche per i nomi abbiamo una sorta di banca dati di nomi scritti sulla porta della nostra sala prove. Sulla porta infatti ci sono diversi potenziali nomi di band come ad esempio “Tutto SomMario” o “Fred Buonsenso” o “John Stavolta” o anche “Alex e le sue fandonie”. Ecco Frank Sinutre nasce proprio in questo modo, pescato da una lista di nomi papabili scritti su una porta.
In realtà ci serviva un nome che non necesitasse per forza di un logo, qualcosa che rimanesse in mente per associazione a qualcos’altro e questo fu il risultato.
La vostra musica è creata in maniera home-made con strumenti elettronici costruiti da voi. Questa è la caratteristica della vostra musica che mi ha colpito di piú… Perché avete deciso di fare musica in questa maniera rivoluzionaria?
(Isacco) Più che una decisione è stata una cosa naturale. Il primo reactaBOX infatti esisteva già prima dei Frank Sinutre. Lo avevo costruito dopo aver visto in azione un vero reacTable ad un concerto di Bjork nel 2008.
I FsN sono nati jammando insieme: reactaBOX e chitarra. Con questo setup abbiamo scoperto diversi lati positivi: libertà di improvvisazione, imprecisione quanto basta per dare un tocco di umanità, e il giusto limite alla libertà che, secondo noi, è il sale della creazione (hai 9 cubetti e devi farteli bastare).
Da allora ne abbiamo costruite tre versioni, migliorando sempre qualcosa.
La drummaBOX invece è una drum machine acustica costruita per fare concerti “unplugged”. Si programma dal PC come un qualunque sequencer, ma alla fine della catena ci sono dei martelli che colpiscono degli oggetti. Non la utilizziamo spesso perché ha un suono che era più adatto ai nostri primi dischi e difficilmente si amalgama con gli ultimi.
Avete suonato in Italia, Slovenia, Svizzera, Croazia e Austria… avete un concerto che vi è rimasto piú impresso nella memoria?
(Michele) In questo periodo di lockdown ci manca moltissimo il live e tutti quei preparativi pre-partenza: dalle prove, ai ritorni in autostrada alla notte, dai semplici gesti come cambiare le corde o mettersi d’accordo su quale set di maglie usare. È uno dei nostri tanti preparativi, come quello di organizzarci per trovare il distributore del metano per l’auto che di solito si rivela una vera caccia al tesoro. Utilizzando strumenti home-made poi, il brivido dell’affidabilità è sempre dietro l’angolo. Una volta a Padova allo Sherwood dopo aver montato gli strumenti ci siamo accorti che il Reactabox non si accendeva. Panico e sudori: cercavamo un tester, è arrivato un cacciavite cercafase. Quella volta è bastato toccare l’alimentatore e si è acceso, probabilmente qualche filo non faceva contatto bene o qualche stagnatura stava mollando.
Ma il brivido al di là degli strumenti lo può regalare anche il viaggio: in un minitour in Slovenia e Croazia, Isi ha dimenticato la carta d’identità. Per andare in Croazia è assolutamente richiesta. In macchina pensavamo a come fare: “Ascolta vado per i boschi e mi vieni a recuperare fra un chilometro”. “Ci sparano Isacco”. “Vai a suonare tu e ti aspetto qui in dogana”. “Dai aspetta, andiamo da quel doganiere che è in pausa”. Gli spieghiamo tutto e nel frattempo ci facciamo mandare la fotografia della carta d’identità da casa e gli mostriamo anche la patente. Non sappiamo bene come, ma siamo riusciti a convincerlo. Un grazie sentito alla dogana croata.
I live per noi è una specie di sport e ce lo diciamo sempre mentre facciamo le scale per caricare in auto tutta la backline: “Dai che è l’unico sport che fai”. E in effetti ogni volta carica, guida, monta gli strumenti, fai il check, suona, suda, smonta, ricarica la macchina, guida per il ritorno e scarica tutto in sala prove. Circa 10 ore in giro. Se non è uno sport questo…
Avendo poi molti strumenti con noi, abbiamo sempre la necessità di arrivare il più vicino possibile al palco e questo ci ha costretto per anni ad infilarci in situazioni urbane letteralmente impossibili: ricordo a Milano dove uno guidava e l’altro occupava un parcheggio da pedone litigando con un suv che voleva occuparlo; oppure a Venezia quando abbiamo caricato tutti gli strumenti su una barca e a piedi con dei carrelli; oppure di una volta a Parma in cui il telefono che faceva da navigatore non funzionava e dato che uno dei due era sceso per arrivare alla location, l’altro ha girato a caso in auto senza indicazioni per quasi un paio d’ore.
Ma anche il grottesco spesso si impadronisce delle nostre avventure: in uno dei primi live ricordo che ci avevano abbinato ad un duo di karaoke perchè il gestore doveva assolutamente festeggiare il compleanno di una cognata. Un binomio proprio azzeccatissimo; ad un certo punto mentre suonavamo, nel bel mezzo di un pezzo, il duo di karoke pian piano tira su i fade, alza la base ed inizia a cantare Ramazzotti sopra di noi. Ci ha fatto ridere per molto tempo la cosa. Fortunatamente però, negli ultimi anni il livello dei live si è alzato un po’ e possiamo dire di aver suonato finalmente in alcuni di quegli spazi che sognavamo da sempre, spazi interessanti e culturalmente all’avanguardia: il Labirinto di Franco Maria Ricci, il Robot Festival e il Cassero di Bologna, lo Spin Time Lab di Roma, lo Sherwood di Padova per citarne alcuni; oltre che tutti i minitour in Svizzera, Austria, Slovenia, Croazia in cui il feedback del pubblico, e per converso i cd che ci chiedono, sono molto diversi dagli standard italici.
Probabilmente di aneddoti live non ce ne sarebbe da riempire un libro, ma una brouchure aziendale sicuramente sì: sulla porta della sala prove abbiamo appiccicato una cartina dell’Italia dove ogni volta al ritorno dal live mettiamo una bandierina sulla città o paese corrispondenti, come in un Risiko; in quasi 10 anni siamo arrivati a circa 300 bandierine. E per ogni bandierina è successo qualcosa o abbiamo conosciuto qualcuno che diventa parte del nostro ricordo sottoforma di una bandierina.
Il vostro quarto album uscito a settembre 2020 è 200.000.000 Steps. Come avete vissuto l’uscita discografica in un periodo di emergenza sanitaria che stiamo vivendo?
(Isacco) Ogni disco è fatto di due lati: uno è su file wav e lo puoi ascoltare sempre; l’altro è sul palco e lo puoi ascoltare solo da noi. Quest’estate eravamo convinti che tutto fosse in via di normalizzazione. Siamo riusciti a fare qualche concerto che anticipava l’uscita del disco, il live del nostro “Release Party” e poi… basta. Ci sentiamo come se avessimo tanta voglia di vedere un amico ma possiamo solo sentirlo per telefono perché è dall’altra parte del mondo… dove la “persona” è il live e il “mondo” è la curva del contagio.
Ci manca tutto: il viaggio in autostrada o lungo i tornanti di montagna, la birra dopo il check, le amicizie (quante persone NON abbiamo conosciuto nell’ultimo anno?), i problemi tecnici da risolvere, la cena tutti insieme, il concerto, il pubblico che vuole provare il reactaBOX.
Un lato di 200M steps è uscito. L’altro vi aspetta dall’altra parte della pandemia.
200 milioni di passi è un numero incredibile. Come mai lo avete scelto come titolo dell’album?
(Michele) 200 milioni di passi rappresentano una stima del numero medio di passi che compie un umano nel corso della sua vita, circa 5 volte il giro del mondo. 200 milioni è senza dubbio un numero pazzesco, si fatica a pronunciarlo e ancora di più ad immaginarlo, ma rappresenta la lunghezza della vita espressa con un’unità di misura alternativa al tempo: “Quanti passi hai?”
Musique pour les Poissons il nostro secondo album, aveva come tema centrale l’acqua, The Boy Who Believed He Could Fly (il nostro terzo) era invece ispirato all’aria, al volare e di conseguenza anche al cadere e al fallire; 200.000.000 Steps è il nostro disco “di terra”: parla del camminare, del (soprav)vivere su questa palla e di tornarci dentro sotto forma di molecole disaggregate alla fine della nostra passeggiata.
Le tracce del vostro album non rispettano i classici tempi delle canzoni (3 minuti), una arriva persino a durare 8 minuti. In un periodo in cui si punta a creare qualcosa di breve per fare colpo sull’ascoltatore, è una scelta coraggiosa.
(Michele) Già, ma a dire la verità speravamo non se ne accorgesse nessuno di queste durate :-). Fra l’altro dal vivo sono quasi sempre anche più lunghe delle originali… E sempre per dirla tutta queste lunghezze non le abbiamo proprio cercate, sono arrivate più o meno spontaneamente. In questo album infatti (a differenza del precedente) abbiamo deciso prima di imparare a suonare le canzoni e poi registrarle; questo aspetto ha senza dubbio inciso sulle varie durate, in quanto l’approccio compositivo è stato simile alle jam, in cui come in un live, le canzoni vivono un inevitabile dilatarsi dei tempi.
Volendo poi, il tutto strizza un po’ l’occhio anche al “clubbing” con tutti i vari cambi di dinamica e reprise indispensabili a “giustificare” pezzi così lunghi. Probabilmente un pezzo con queste durate non sarà mai radiofonico ma sicuramente dal vivo offre un trasporto completamente diverso. Sempre sulle lunghezze mentre registriamo facciamo sempre un paragone buffo fra la canzone che abbiamo in mano e le dimensioni umane: ad esempio se vuoi accorciare un finale, un intro, una strofa ad una canzone ricordati di rendere la cosa proporzionata al resto, altrimenti avrai un uomo con un corpo normale ma braccia lunghissime, ad esempio.
Nel vostro album l’inglese regna sovrano, tranne in due tracce dove compare la lingua italiana. In quale lingua sentite che la vostra musica sia rappresentata in maniera migliore?
(Michele) Anche in questo caso accade tutto abbastanza spontaneamente, il più delle volte non sei tu che cerchi la canzone ma è la canzone che cerca te e qualche volta ti trova a casa. A volte la canzone che viene a bussare è una canzone inglese, a volte italiana, a volte altro ancora… Una cosa è sicura però, qualsiasi sia la lingua del suo testo è un testo maccheronico; lei arriva così, come uno scemo girovago notturno che è rimasto a piedi in auto sotto la pioggia e viene a svegliarti mentre stai per addormentarti. Arriva inaspettata e grezza. E’ tutta da levigare come una pietra o da pettinare come una parrucca. Poi, una volta aggiustata la sua auto in panne, pian piano si ricompone e (ri)prende la sua forma…
Per quanto riguarda la lingua non esiste una regola certa, anche se con buona approssimazione ci siamo resi conto che quando vogliamo parlare di qualcosa di apparentemente meno serio spesso il testo viene fuori in italiano. Franco cerca un’ora e Scolapasta sono due canzoni serie travestite da “poco serie” possiamo dire.
Nei dischi passati avevamo anche alcuni pezzi in francese e spagnolo, un po’ perché ci piace il poliglottismo diretto, semplice e universale alla Manu Chao, e un po’ perché erano venuti così, fra frasi strappate in conversazioni tra amici e versi sparsi memorizzati in un blocco note sul telefono durante le vacanze o in una pausa in bagno: entrambi momenti di grande relax in cui la mente si esalta, momenti in cui appunto la canzone viene a cercarti.
Qualche anticipazione sui prossimi progetti a cui state lavorando?
(Isacco) A livello di produzioni, abbiamo da poco completato un remix per Es Madd, artista pugliese seguita dagli amici The Dust Realm che uscirà prossimamente.
Poi, abbiamo diversi progetti in cantiere per tenerci occupati durante questo periodo di stop: intanto un nuovo video, come sempre diretto dal nostro videomaker di fiducia Giovanni Tutti; il prototipo di un nuovo strumento che abbiamo chiamato ROTOTUNE: si tratta di dispositivo che interagisce con i pickup della chitarra elettrica attraverso la rotazione di un motore: suonando una tastiera, un motore viene fatto girare ad una velocità tale da interagire con i pickup della chitarra e creare la giusta nota.
Frank Sinutre sul numero 307 di Fedeltà del Suono a cura di Gianmaria Dellai all'interno della recensione dell'amplificatore integrato BC Acoustique EX-214:
“Let This Sound Sing” è il secondo singolo estratto da “200.000.000 Steps”, quarto album in studio dei Frank Sinutre, con la tromba di Marco Cremaschi come guest. Il brano è veicolato da un videoclip “psych” di Giovanni Tutti, prodotto con la sua Giovanni Tutti Films. Il duo di mantova dedito ad una particolarissima declinazione della musica elettronica, oltre ad avere quattro album all’attivo, conta più di 300 live tra Italia ed Europa. Il video di Let This Sound Sing, che procede sicuro verso le 40mila visite combina l’estetica del live in studio, dove è possibile godersi i fantasiosi device autocostruiti dei nostri, con quell’animazione che recupera spirito, colore e movimento dei Jazz cartoons, ma anche certe sperimentazioni degli anni ottanta, pensiamo in particolare alla straordinaria avventura creativa di Annabel Jankel (citiamo a questo proposito, Decoy per Miles Davis) a cui Tutti aggiunge uno stile personalissimo, dove la pittura illuminotecnica gioca un ruolo centrale.
GIOVANNI TUTTI, ARTIGIANATO ANIMATO: L’INTERVISTA
Come è nata la collaborazione con i Frank Sinutre? La mia collaborazione con il duo elettronico Frank Sinutre inizia nel 2012 e ho praticamente incominciato a “fare” il video-maker con loro; sono partito a realizzare video in stop-motion per i loro brani, e diciamo che ho scoperto questa tecnica con la loro musica: notavo che il ritmo visivo sincopato delle immagini in stop-motion si armonizzava bene con la cifra stilistica e la musica elettronica dei Frank, e così è nata la nostra partnership, che continua ancora oggi, dopo più di dieci anni. Per diversi loro live ho curato anche i loro visual show facendo di fatto parte della formazione. Dopo questi 10 anni, ricordo ancora il primo video realizzato per loro in stop-motion, era quello di “Someone’s Dub” in cui annunciai poco prima dell’inizio lavorazione: “Ragazzi in una notte facciamo tutto”, mentre in una notte riuscimmo a coprire sì e no 10 secondi; ci vollero invece altri 6 mesi di lavoro per ultimarlo. Ricordo che avevo un lungo tavolo in una stanza accanto alla sala prove dei Frank Sinutre dove sistemai tutti i materiali, gli sfondi e i personaggi fatti di lego, plastilina, carta e su questo tavolo si svolgevano e prendevano forma le scene; appoggiata ad un piccolo carrellino tenevo la macchina fotografica con cui scattavo le foto e realizzavo le carrellate facendo scorrere carrellino e macchina sul tavolo. Ricordo che spesso ci venivano a trovare amici, musicisti e avventori che en passant contribuivano a creare personaggi e oggetti che poi sarebbero diventati parte del set.
Per let this sound sing come si è sviluppata la collaborazione? Per questo ultimo video “Let This Sound Sing” del loro ormai quarto disco “200.000.000 Steps” non ho voluto utilizzare la tecnica dello stop-motion, ma dal momento che volevano mettere in mostra gli strumenti elettronici home-made che utilizzano nei loro live, che sono un po’ il cuore del loro live set, abbiamo deciso di realizzare un video molto più classico che assomigliasse ad una loro performance, sfruttando colori fluorescenti e luci di wood. Il making of del video per i Frank Sinutre.
Raccontaci la lavorazione e le modalità di organizzazione del set… In questo ultimo video, come in altri, ho adottato un’altra tecnica. Inizialmente volevo creare un video senza mai cambiare l’inquadratura, ma cambiare solo la messinscena all’interno della stessa, poi, come sempre, dato che l’atto creativo è un flusso in continua evoluzione, le inquadrature sono molteplici e mi sono reso conto che mi serviva un ritmo più variegato, soprattutto per dare risalto alla loro strumentazione e al set visivo “Frank Sinutre” richiamando l’esperienza di un live, ossia ricreare la sensorialità di un loro concerto dal vivo. Ogni volta la musica dei Frank Sinutre richiama nel mio immaginario l’ultravioletto e di conseguenza la psichedelia, quindi in post-produzione il video è diventato questo: un gioco di luce e ombra, di luce e viola, e tra un’inquadratura e l’altra, per amalgamare gli stacchi, ho parzialmente utilizzato un po’ di Stop Motion (in fondo non lo abbandono mai del tutto) che ho realizzato digitalizzando i disegni di mia figlia.
Parlaci delle tecniche di animazioni utilizzate e dei visuals La tecnica d’animazione dello stop-motion rimane il mio grande amore nonostante le successive esperienze con altre tecniche, trovo da sempre che sia un grande allenamento alla pazienza, in quanto richiede precisione nei minimi spostamenti degli oggetti e dei personaggi ad ogni foto ed è inoltre necessario rigirarlo fin quando ogni foto è perfetta, coerente con la precedente e la successiva. Con questa tecnica riesco a ricreare un movimento mio personale che non rispecchi necessariamente quello della realtà di un video in cui ci sono personaggi in carne e ossa. Anche la manualità nel ricreare i personaggi implica una certa abilità che si acquisisce nel tempo, conoscendo le caratteristiche dei materiali che si stanno impiegando e alcuni rudimenti di base dell’arte scultorea. Un altro aspetto positivo è che nello S.M. è sufficiente un set ridotto, un tavolo ad esempio, un mondo in miniatura dove ricreare qualsiasi situazione (o quasi) e tutto questo ha un impatto decisamente positivo per tutte le questioni logistiche organizzative. Ad esempio ci si può permettere di lavorarci anche solo un’oretta prima di cena e proseguire il giorno dopo e così via. Ricordo tuttavia anche di lunghe serate, in cui per la smania di finire, delegavo agli amici che passavano a trovarmi, la costruzione di interi set di bisciolini di diversi colori, o palline, o bastoncini che mi servivano in grande quantità per ricreare la meiosi delle cellule o anche grandi costruzioni di astronavi o palazzi in LEGO per ricreare città o contesti urbani. Serate passate in compagnia non solo ai Frank Sinutre ma ai tanti personaggi che ruotavano attorno alla sala prove a costruire set e personaggi che poi sarebbero diventati parte delle animazioni dei video. Cito a questo proposito “Sunset with Sunrise” e “Driving Thru a City By Night” Il making of del video per i Frank Sinutre.
Se tu dovessi parlare di influenze e riferimenti importanti per il tuo lavoro, cosa citeresti? I cortometraggi hanno rappresentato da sempre grandi fonti di ispirazione per me: storie che si sviluppano in breve sono un ottimo esempio guida per realizzare videoclip in stop-motion. Un videoclip su tutti che mi ha fatto scattare la scintilla è stato “Baby Snakes” realizzato per Frank Zappa in stop motion. Fra gli altri grandi maestri della mia formazione voglio citare David Lynch, Spike Jonze, Michel Gondry e per quanto riguarda la video-arte Bill Viola. Ce ne sarebbero a bizzeffe di nomi da citare. Ad essere sinceri però devo dire che la primaria fonte di ispirazione per me, resta il mio lavoro di proiezionista al cinema, un lavoro alla Alfredo di “Nuovo Cinema Paradiso” che mi ha sempre dato la possibilità di confrontarmi con il “Nuovo” e sondarne le tecniche, qualcosa da cui imparare ogni volta qualcosa. Il making of del video per i Frank Sinutre.
GIOVANNI TUTTI BIOGRAFIA ARTISTICA Giovanni Tutti è nato a Legnago (VR) il 26 giugno 1984. Vive e lavora a Sermide (MN) come proiezionista e come visual artist di opere sperimentali. La sua formazione inizia con la collaborazione visiva per la Rock Band “Bianconiglio” con la quale collabora per la creazione di alcuni videoclip e nel 2010 per la messa in scena di una performance live al festival di video arte “The Scientist” di Ferrara; al quale partecipa pure l’anno precedente, nel 2009 con un documentario sperimentale creato in collaborazione con il Prof. Vitaliano Teti: “Timotthy Tompkins e Giorgio Morandi, After Still Life”. Laureato nel 2011 in “Tecnologo della Comunicazione Audiovisiva e Multimediale” con una tesi sul linguaggio video musicale: “La pratica del videoclip: il montaggio interno all’inquadratura” nel 2013 ha partecipato assieme ai Frank Sinutre all’exibition Trames/Tramites con un’opera bicanale sull’analisi filmica del paesaggio attraverso il mezzo video. dal 2012 ad oggi ha collaborato con molteplici artisti, soprattutto musicisti come Cranchi, Matija, P.A.N.F., Jacopo Salieri, per la creazione di videoclip, live visual show, video arte, e la sperimentazione di tecniche video in Stop Motion in collaborazione con il duo musicale Frank Sinutre. Il making of per il video dei Frank Sinutre. _________________________________________________________________________________